La Poesia del geometra-poeta Alfreso Genovese
CARIATI - Pasquale Loiacono - Non sembri audace il fantasioso confronto, ma lui, Alfredo Genovese da Falconara Albanese, classe ’44, trapiantato a Cariati da quasi 40 anni,; geometra, come tal Salvatore Quasimodo, concilia, ed, anzi, armonizza il freddo calcolo dei numeri e dei disegni; della tecnica pura; del calcestruzzo e del cemento, con gli aneliti profondi e sconosciuti dell’anima, a riprova che l’uomo non è solo carne e nervi e ragione, ma quello che sa dire “Bambino mi dai la tua mano?”; quello che sa viaggiare “Nel treno delle meraviglie”; un “gigante di gommapiuma”, convinto che “l’amore non è in vendita”, e forse è “meglio morire/sotto questo cielo/oggi cupo e tempestoso”.
Genovese, come solo sa essere sensibile chi viene al mondo con la lingua degli arberëshë, nel cuore e nella mente, ha una corda in più nell’armonia terribile e sconvolgente della terra, intesa come polvere: come il temerario Scanderberg, che guidò la diaspora di un popolo fiero e forte e che preferì la via dignitosa dell’esilio volontario, piuttosto della sottomissione omicida che trucida i sogni.
Così, il geometra – poeta si costruisce un “alter ego” impalpabile e magnifico e non abbandona mai le “sudate carte” di leopardiana memoria.
Ma, nonostante i ragguardevoli risultati che ottiene con il “ghiaccio” di un mestiere di testa, non abbandona mai la musa per “raccontar di noi/ma chi racconterà di noi?”
Dilaniato dalla scomparsa della figlia Stefania, metabolizza il dolore, anche se “l’esplosione fragorosa/dei miei arditi/falsi combattenti/invade il giorno”.
Ma per Genovese “anche il sogno edifica/a volte l’anima”, sicché il suo poetare assurge a “sistema” di vita in cui l’artista non è mai disgiunto dall’uomo che si pone l’eterno, angosciante dubbio: “Ma chi sarò/cosa vedrò lassù../dove mi porteranno”.
Prosaico (“Ho nascosto/tutte le mie verità/nel cavo degli alberi antichi”), ma anche capace di denudarsi (“Ho navigato svestito/sulle foglie della disfatta”), il poeta svela il suo essere sulle ali della memoria (“E quando sarò capito/avrò certamente colpa/di non aver vissuto”) e si aggrappa ad una certezza crudelissima (“Ma sarai sconfitto/da quel grappolo di stelle/ variopinte”) rimembrando certe ore verginali (“Me ne stavo in riva al mare/con l’acqua cheta cheta”) in tempo in cui “la primavera è migrata”, pur consapevole che “ora/che ho quasi raggiunto la scadenza/del mio tempo/riassumo memorie”.
Alfredo Genovese è un sussulto; una tenue voce che avverte, “a colpi di frusta frastagliata/tra le stagioni morenti”, che è ancora possibile sentire “il profumo soave di zagara”. Quello della vita.
(Alfredo Genovese – L’incognita del mistero – edizioni Editoriale progetto 2000)